La proroga delle concessioni balneari nel Decreto Rilancia Italia. Una soluzione di compromesso con non pochi problemi interpretativi.

Tanto tuonò che piovve. L’apertura del Governo alla proroga fino al 2033 delle concessioni demaniali ad uso turistico ricreativo ha trovato esecuzione nell’art. 187 bis del Decreto Rilancio Italia licenziato mercoledì 13 dal Governo e tutt’ora in fase di pubblicazione. Una soluzione tanto attesa da parte degli oltre 30 mila operatori del settore turistico balneare, rinsaldate negli ultimi giorni dalle promesse del Ministro dei beni culturali e del turismo Dario Franceschini, che aveva preannunciato la volontà di dare attuazione alla Legge 145 del 2019 varata dal precedente Governo, nonostante il rischio, più che concreto, di un nuovo scontro con l’Unione Europea.

Questo almeno nelle premesse, se non che la soluzione data alla vicenda dei balneari nel Decreto Rilancio Italia pare in realtà mitigare qualunque ipotesi di conflitto, preferendo la linea più morbida del compromesso in vista di tempi migliori. La norma prevede all’art. 187 bis comma 2 che “al fine di contenere i danni derivanti dall’emergenza COVID-19 a carico degli operatori che esercitano la propria attività con uso di beni del demanio marittimo, in conformità a quanto disposto dall’articolo 1, commi 682 e 683 della legge 30 dicembre 2018, n. 145, per le aree e le relative pertinenze oggetto di riacquisizione già disposta o comunque avviata, gli operatori proseguono l’attività, nel rispetto degli obblighi inerenti ai relativi rapporti concessori già in atto, fatto salvo quanto stabilito dall’articolo 34 del decreto-legge 30 dicembre 2019, n. 169, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2020, n. 8”.

Sempre il comma 2 esclude l’applicabilità del nuovo regime ai beni che non hanno formato oggetto di titolo concessorio, né quando la riacquisizione dell’area e delle relative pertinenze è conseguenza dell’annullamento, della revoca o della decadenza del titolo per fatto del concessionario”.

A prima lettura quella a cui ha dato corso il Governo non appare propriamente una proroga, per lo meno non quella attesa, piuttosto il “congelamento” dei titoli concessori in scadenza in vista di una successiva risistemazione. Una scelta, come si evince dallo stesso incipit, guidata dall’emergenza determinata dal Covid 19, senza condivisione dell’indirizzo dato dal precedente Governo che l’ha approvata. Non una norma strutturale, per intenderci, tanto meno una riforma del sistema nel senso della conservazione delle attuali concessioni per altri 15 anni, piuttosto un provvedimento contingente, destinato a rimuovere alcune difficoltà economiche legate all’incertezza nel settore, tra cui gli ostacoli opposti dalle banche all’accesso al credito per quei concessionari in scadenza nel 2020. Risultato che il Governo ha inteso perseguire prevedendo anche una sorta di moratoria sul piano amministrativo, bloccando le procedure avviate dal Comuni conseguenti alla scadenza dei titoli.

In senso contrario non depone nemmeno il richiamo contenuto nel comma 2 dell’art. 187 bis del Decreto alla conformità con l’art. 1 comma 682 e 683 della L. 145, se si considera che la ratio di quella norma mirava alla stabilizzazione dei rapporti concessori senza alcuna subordinazione. L’obiettivo, non dichiarato, appare invece quello di ottenere un effetto estensivo in grado di sostenere il comparto in questo momento di difficoltà (e non per 15 anni come voluto dalla precedente legge e dagli operatori), senza andare incontro alle consolidate censure dell’Unione Europea per contrasto con la direttiva Bolkestein. Un nuovo appello, non senza ricorrere a qualche artificio linguistico, alla pazienza del legislatore comunitario, ben consci che sulla proroga a 15 anni varata dal precedente Governo, la Corte di Giustizia Europea sarà durissima, costringendoci a mettere mani ad una riforma in linea con il Trattato Fue.

Quanto questo risultato possa far respirare il comparto non è dato saperlo oggi, dipenderà non solo dalla disponibilità della Banche a dare atto della garanzia fornita dallo stato sulla continuità aziendale, ma soprattutto dalla “disponibilità” dei Comuni a condividere la linea dell’emergenza. Decisione che si presta a non pochi problemi interpretativi, primo tra tutti se ciò consisterà nel solo blocco (provvisorio) delle procedure amministrative finalizzate alla riacquisizione allo Stato dei beni demaniali, oppure nel rilascio di provvedimenti di proroga richiesti dagli operatori, di 15 anni o per periodi più brevi, avendo bene a mente l’orientamento lapidario espresso dalla giustizia amministrativa (V. Consiglio di Stato, sent. n. 7874 del 18/11/2019 – Tar Veneto, sent. n. 218 del 03/03/2020) a favore dei Comuni che hanno negato il rilascio dei nuovi titoli.