I PROFILI DI RESPONSABILITA’ PENALE NELL’IMPIEGO DI MANODOPERA CLANDESTINA ALLA LUCE DELL’ATTUALE EMERGENZA SANITARIA.

La repressione penale dell’impiego di manodopera clandestina rappresenta il tallone d’Achille dell’attuale normativa. Sagacemente, infatti, può sostenersi che il diritto penale non possiede un vero e proprio potere conformativo della realtà. Asserire il contrario significherebbe elevare una branca del diritto a un arnese di governo asservito alle esigenze delle legge.

Ben si comprende, pertanto, come nel diritto penale degli albori non si rinvenisse alcuna norma diretta a sanzionare il fenomeno del reclutamento di manodopera clandestina. Tale deficit normativo venne colmato mediante un’interpretazione estensiva dei reati di estorsione e violenza privata, che tuttavia non riuscirono a coprire tutti i casi emergenti dalla realtà applicativa.

Una prima soluzione (rivelatasi del tutto insoddisfacente) si ebbe con l’emanazione del d.lgs. n. 286/1998 (rectius: T.U.I.).

L’articolo 22 co. 12 recante “Disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, punisce il datore di lavoro che occupi alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi di permesso di soggiorno o il cui permesso sia scaduto o non rinnovato, con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni e con l’esosa multa di 5000 euro per ogni lavoratore impiegato.

Per la configurazione del reato è necessario che il soggetto attivo agisca con dolo, mentre non è responsabile il datore di lavoro che abbia assunto lo straniero per negligenza, imprudenza o imperizia (sul punto si veda Cass. Pen. Sez. I, sentenza n. 9882 del 2011). E’ bene precisare che sul datore di lavoro grava un vero e proprio onere di diligenza che si concretizza nel controllo circa il possesso, da parte del lavoratore, di un regolare titolo di soggiorno. La giurisprudenza ha specificato che il suddetto controllo è soddisfatto solo a seguito dell’esibizione (da parte del lavoratore) dell’originale del permesso di soggiorno.

La portata semantica della disposizione in esame ha sollevato numerosi problemi logico-interpretativi che sono stati prontamente fugati. Consolidato è quell’orientamento giurisprudenziale che opta per un’interpretazione estensiva della locuzione “occupare alle proprie dipendenze”, in guisa da disancorarla dal concetto di lavoro subordinato ex. art. 2094 c.c. Inoltre, il termine “datore di lavoro” non identifica sic et simpliciter l’imprenditore che gestisce un’attività organizzata, ma chiunque assuma una o più persone per svolgere attività lavorativa.

Come si è accennato in apertura, la nuova disciplina rappresentò una prima soluzione finalizzata alla repressione dell’assunzione irregolare di manodopera straniera. E’ giocoforza intuire come essa pagò lo scotto dell’impreparazione dei governanti a gestire un fenomeno da sempre sottaciuto. Nel corso del tempo, dunque, si avvicendarono numerosi interventi legislativi finalizzati a colmare l’ horror vacui normativo e recepire le indicazioni provenienti in sede sovranazionale.

Si allude in particolare al d.lgs. n. 109/2012 (di recepimento della Direttiva europea 2009/52/CE) che ha introdotto tre circostanze aggravanti.

L’articolo 22 co. 12-bis prevede un incremento della pena da un terzo alla metà:

1) se i lavoratori occupati sono in numero superiore a tre;

2) se i lavoratori occupati sono minori in età non lavorativa;

3) se i lavoratori occupati sono sottoposti a condizioni lavorative di particolare sfruttamento ex. art. 603 bis c.p.

Ma il furore repressivo del legislatore non si arrestò qui. Infatti, il sistema sanzionatorio così articolato ha ricevuto nuova linfa vitale grazie all’introduzione del sistema del c.d. “doppio binario” mirante a corroborare la sanzione penale grazie alla previsione di una sanzione amministrativa accessoria.

Così, l’attuale articolo 22 co. 12-ter prevede che con la sentenza di condanna il giudice applichi la sanzione amministrativa accessoria del pagamento del costo medio di rimpatrio (stabilito con decreto del Ministro dell’Interno, di concerto con i Ministri della Giustizia, dell’Economa e delle Finanze e del Lavoro e delle Politiche Sociali) dello straniero assunto illegalmente.

La determinazione del suddetto costo medio è avvenuta a seguito dell’emanazione del decreto interministeriale n. 151/2018. Quest’ultimo ha stabilito che il costo medio, avuto riguardo all’anno in cui è pronunciata la sentenza di condanna, è dato dalla media del triennio che precede l’anno anteriore a quello cui il costo medio si riferisce dei valori risultanti dal rapporto tra il totale degli oneri sostenuti annualmente per il rimpatrio degli stranieri ed il numero complessivo dei rimpatri sostenuti nel medesimo anno.

Tale costo, fissato per l’anno 2018 in euro 1.398, è stato innalzato per l’anno corrente a 1.971 euro. Ad esso, inoltre, deve essere apportato un incremento del 30% in virtù dell’incidenza degli oneri economici connessi ai servizi di accompagnamento e scorta.

Diversa, seppur sorretta dalla medesima ratio repressiva, è la disciplina della c.d. maxi-sanzione introdotta nel nostro ordinamento con il D.L. n. 12/2002, convertito in legge n. 73/2002. Trattandosi di una fattispecie particolarmente articolata è d’uopo delineare la fisionomia.

La condotta penalmente sanzionata (consistente nell’impiego di manodopera non denunciata) integra un reato permanente, posto che l’offesa al bene giuridico si protrae nel tempo e cessa solo se il datore di lavoro regolarizza il rapporto o se lo stesso si interrompe.

Tutto ciò premesso è di intuitiva evidenza constatare come l’ambito di applicazione dell’articolo 22 co. 12 T.U.I. e quello della maxi-sanzione de quo siano differenti e non sovrapponibili. Tale conclusione è stata corroborata dalla circolare n. 38/2010 del Ministero del lavoro che ha fornito talune, significative, precisazioni.

In primo luogo si è chiarito che la sanzione penale persegue l’obiettivo precipuo di arginare il flusso di ingressi clandestini nel nostro territorio laddove, invece, la sanzione amministrativa è mossa dalla finalità di contrastare il lavoro nero a prescindere dallo status del lavoratore. La conclusione desumibile da tali premesse è pressoché unica: la necessaria compresenza di entrambe le sanzioni nel contrasto al lavoro nero. Inoltre, secondo tale provvedimento, la sanzione amministrativa esplicherebbe un rilievo meramente addizionale finalizzato a reprimere non una condotta contra ius (a ciò, infatti, osta il principio del ne bis in idem) ma esclusivamente l’impiego di manodopera non risultante da documentazione o in relazione alla quale non sia stata effettuata la comunicazione preventiva di assunzione.

Le delucidazioni contenute nella suddetta circolare non vennero salutate con particolare favore. Molteplici erano le questioni che si incuneavano all’interno di coni d’ombra non rischiarate dal provvedimento in esame.

Si creò, dunque, un nodo gordiano che venne nettamente reciso cinque anni più tardi, con l’emanazione del d.lgs. n. 151/2015 (c.d. Jobs Act).

Così, l’articolo 22 co. 1 del Decreto-Legislativo rimodula la maxi-sanzione introducendo degli scaglioni di gravità ascendente. In particolare, a seguito delle modifiche apportate dalla Legge di Bilancio 2019 gli importi sono così determinati:

  • da 1.800 a 10.800 euro per ogni lavoratore straniero o minore irregolare in caso di impiego del lavoratore sino a 30 giorni effettivi di lavoro;

  • da 3.600 a 21.600 euro per ogni lavoratore straniero o minore irregolare in caso di impiego del lavoratore da 31 e sino a 60 giorni effettivi di lavoro;

  • da 7.200 a 43.200 euro per ogni lavoratore straniero o minore irregolare in caso di impiego del lavoratore oltre 60 giorni effettivi di lavoro.

Tali sanzioni sono raddoppiate qualora si tratti di recidiva delle medesime condotte poste in essere nei tre anni precedenti.

Al rigorismo sanzionatorio testé delineato fa da contraltare un (blando) favor per il datore di lavoro in alcuni, tassativi, casi.

La prima ipotesi riguarda la possibilità di richiedere la revoca del provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale mediante il versamento immediato del 25% dell’importo aggiuntivo dovuto (rispettivamente 500 e 800 euro) e il restante 75% (maggiorato del 5%) entro i sei mesi successivi, che decorrono dal giorno di presentazione dell’istanza (pertanto, l’importo residuo sarà pari rispettivamente a 1.575 e 2.520 euro). Qualora il datore di lavoro adempia alle suddette prescrizioni nei termini previsti, il provvedimento di revoca della sospensione unitamente al provvedimento che accoglie l’istanza costituiranno titolo esecutivo.

La seconda innovazione prevista concerne la reintroduzione della diffidabilità della maxisanzione. Sul punto, si prevede che la sanzione amministrativa venga temperata nel caso in cui il datore di lavoro provveda a regolarizzare il lavoratore stipulando un contratto di lavoro subordinato, a tempo indeterminato (anche part-time) o un contratto a termine di durata non inferiore a tre mesi (full time), con mantenimento in servizio del lavoratore irregolare per almeno tre mesi dalla data d’accesso dell’ispettorato (viceversa, il contratto retroagirà al primo giorno di lavoro in nero). In aggiunta, si richiede che il datore di lavoro versi al lavoratore i contributi previdenziali e corrisponda l’esatta retribuzione per l’attività prestata.

Infine, quale ultimo requisito si prevede il pagamento della maxisanzione entro 120 gg. dalla notifica del verbale.

Dunque, ricorrendo congiuntamente tali presupposti l’illecito ascrivibile al datore di lavoro si estinguerà mediante il pagamento di una sanzione pari al minimo edittale per ciascuna fascia di irregolarità.

Su tale policromo sistema ha inciso il recente Decreto-Legge n. 34 del 19 maggio 2020 (c.d. “Decreto Rilancio“) finalizzato ad arginare i disastrosi effetti provocati dall’emergenza sanitaria (COVID-19) in atto.

Il centro gravitazionale dell’intero provvedimento ruota attorno all’annosa questione della regolarizzazione dei lavoratori immigrati da sempre (e ardentemente) auspicata dal Ministro delle politiche agricole Bellanova.

La ragione che milita dietro siffatta scelta è facilmente intuibile. Posto che la gran parte della manovalanza agricola è rappresentata per lo più da cittadini extracomunitari, la chiusura delle frontiere motivata dalle restrizioni governative rischia di mettere in ginocchio l’intero comparto agricolo. Sono proprio le associazioni datoriali a fornire un quadro delle mastodontiche proporzioni del fenomeno in atto: l’assenza di manodopera paralizza non solo l’attività di raccolta ma anche quella di semina, con conseguente penuria di prodotti e rincaro dei prezzi.

Esaminiamo, dunque, i punti salienti della c.d. sanatoria.

Anzitutto occorre premettere che l’ambito di applicazione del provvedimento è delimitato sia soggettivamente che oggettivamente.

Ratione materiae, infatti, si prevede che le disposizioni contenute nel Decreto de quo riguardino:

l’agricoltura, l’allevamento e la zootecnica, pesca e acquacoltura e attività connesse;

l’assistenza alla persona per se stessi o per i componenti della propria famiglia, ancorché non conviventi, affetti da patologie o handicap che ne limitano l’autosufficienza;

il lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare.

Particolarmente stringenti sono poi i requisiti volti a circoscrivere la platea dei beneficiari. Infatti, è necessario che i cittadini stranieri:

non abbiano lasciato il territorio nazionale dalla data dell’8 marzo 2020;

siano stati sottoposti a rilievi fotodattiloscopici prima dell’8 marzo 2020 ovvero aver soggiornato in Italia prima di tale data, in virtù della dichiarazione di presenza resa ai sensi della legge n. 68/2007.

A tale ipotesi si aggiunge la possibilità per i cittadini stranieri con PDS scaduto il 31 ottobre 2019 di richiedere un PDS temporaneo della durata di 6 mesi dalla presentazione dell’istanza, valido solo per il territorio nazionale e finalizzato alla ricerca di un’occupazione regolare.

In questo caso, la domanda potrà esser accolta solo qualora ricorrano due requisiti: lo svolgimento di un’attività lavorativa antecedentemente al 31 ottobre 2019 nei settori previsti dal decreto e il soggiorno sul territorio nazionale alla data dell’8 marzo 2020.

Da un punto di vista procedurale, la regolarizzazione si presenta tutt’altro che agevole e snella.

Il Decreto stabilisce che l’istanza di emersione del lavoro nero debba esser presentata dal 1 giugno al 15 luglio 2020 ad enti differenti a seconda del soggetto di cui trattasi.

In particolare:

a) all’INPS, in caso di emersione di lavoratori italiani o provenienti da un paese UE;

b) alla Questura per il rilascio di PDS a cittadini stranieri con PDS scaduto dal 31 ottobre 2019 (che non sia stato rinnovato o convertito in altro titolo di soggiorno);

c) allo Sportello unico per l’immigrazione per i lavoratori stranieri presenti sul territorio nazionali diversi da quelli di cui alla lett. b).

La presentazione dell’istanza deve essere accompagnata dal pagamento di un contributo forfettario pari a 500 euro per ogni lavoratore. Nel caso in cui la procedura riguardi la regolarizzazione di soggetti con PDS scaduto dal 31/10/2019 il contributo ammonterà a 160 euro.

Inoltre, si prevede che con l’istanza sia indicata la durata del contratto di lavoro e la retribuzione convenuta (che deve esser non inferiore a quella prevista dal CCNL).

Oltre a perimetrare, in positivo, il campo di applicazione ratione personae e materiae, il Decreto contempla anche delle cause di inammissibilità per ambo le parti.

Segnatamente, costituisce causa ostativa alla presentazione dell’istanza la condanna del datore di lavoro negli ultimi cinque anni (anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 c.p.p.) per:

– favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’immigrazione clandestina dell’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite, nonché per il reato di cui all’art. 600 c.p.;

– intermediazione illecita e sfruttamento lavorativo ex. art. 603-bis c.p.;

– reati previsti dall’art. 22 co. 12 del T.U.I.

Quale ulteriore causa di rigetto dell’istanza (limitatamente ai casi di conversione del PDS per motivi di lavoro) è prevista la mancata sottoscrizione, da parte del datore di lavoro, del contratto di soggiorno presso lo sportello unico per l’immigrazione ovvero

la successiva mancata assunzione dello straniero (salvo cause di forza maggiore non imputabili al datore stesso).

Dal lato del lavoratore, invece, si prevede l’esclusione della procedura de quo per i cittadini stranieri:

– destinatari di un provvedimento di espulsione ex. art. 13 commi 1 e 2, lett. c) del T.U.I. e dell’art. 2 del Decreto-Legge n. 144/2005;

– che siano stati segnalati ai fini della non ammissione nel territorio dello Stato;

– che risultino condannati, anche con sentenza non definitiva (compresa quella pronunciata anche a seguito di applicazione della pena su richiesta delle parti ex. art. 444 c.p.p.), per uno dei reati previsti dall’art. 380 c.p.p. o per i delitti contro la libertà personale ovvero per i reati inerenti gli stupefacenti, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dell’Italia verso altri Stati o per i reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite;

– che siano considerati una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con cui il nostro Stato abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alla frontiere interne e la libera circolazione delle persone.

La presentazione dell’istanza consente al datore di lavoro e al lavoratore di “sanare” la posizione di irregolarità.

Infatti, il Decreto prevede che nelle more del procedimento siano sospesi i procedimenti penali e amministrativi per:

– l’impiego di lavoratori per i quali è stata presentata dichiarazione di emersione, anche se di carattere finanziario, fiscale, previdenziale o assistenziale;

– l’ingresso e il soggiorno illegale nel territorio dello Stato (con esclusione degli illeciti di cui all’art. 12 del T.U.I).

Vi sono, tuttavia, delle ipotesi particolarmente gravi per le quali la sospensione non opera.

Si tratta dei reati di: a) favoreggiamento dell’immigrazione clandestina o comunque reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite, nonché il reato di cui all’art. 600 c.p.; b) intermediazione illecita e sfruttamento lavorativo ex. art. 603-bis c.p.

Mosso dalla chiara finalità di dissuadere il datore di lavoro dall’impiegare lavoratori stranieri che abbiano richiesto il rilascio di un permesso di soggiorno temporaneo, il legislatore prevede altresì che, in caso di assunzione dei suddetti senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro, siano raddoppiate le sanzioni previste dal d.lgs. n. 151/2015 e dall’articolo 603-bis.

Infine, si apprezza favorevolmente l’inclusione di disposizioni volte a tutelare la dignità del lavoratore straniero e a contenere la proliferazione del contagio. A tal riguardo, la norma stabilisce che le Regioni debbono adottare misure finalizzate a garantire che la salubrità degli alloggi e a contrastare il fenomeno del caporalato.

L’ampia disamina fornita è ben lungi dall’esser compiutamente determinata. Si tratta di un provvedimento in fieri che necessita di ulteriori specificazioni da parte del Governo (si attendono, tra l’altro, ulteriori ragguagli circa le modalità di presentazione delle istanze).

In ogni caso, dalla relazione tecnica del Decreto Rilancio emergono delle previsioni di medio termine. Il numero di istanze di regolarizzazione potrebbe attestarsi a quota 220 mila (176 mila da parte dei lavoro e 44 mila da parte dei cittadini stranieri) con un apporto alle casse dello Stato di oltre 94 milioni di euro.